A cura di Camilla Castellano, Benedetta Padrini, Luigi Toso
Classe 4^C , Liceo “G. Marinelli”
LA DINASTIA FLORIO E LA NASCITA DELLA BIBLIOTECA
Udine, a metà del Seicento, vantava un’unica collezione privata: quella dei conti Gorgo, che avevano destinato un’ala del loro palazzo di città alle riunioni della pubblica Accademia, aprendo agli iscritti la biblioteca. Era proprio in seno a quest’ultima che andava a definirsi l’uomo equilibrato e colto, maturato sui buoni libri.
Nel mondo colto friulano iniziò così a farsi sentire la necessità della biblioteca, vista come indispensabile strumento di studio e insieme espressione di decoro e nobiltà della famiglia che la possedeva. Le biblioteche private del Settecento udinese erano espressione in primo luogo degli interessi dei singoli intellettuali, ma più in generale dell’indirizzo culturale dell’epoca, con una prevalenza di tesi di tipo giuridico, di edizioni di classici, e, a partire dalla seconda metà del secolo, di opere scientifiche e agronomiche. In certi casi l’iniziativa del singolo dava inizio a una tradizione familiare. Molte di queste biblioteche sono andate disperse, divise fra gli eredi, vendute tra i beni patrimoniali; altre sono ricostruibili attraverso più o meno completi inventari.
Nel Settecento udinese, però, la principale biblioteca che rappresentava gli interessi e consolidamento del pubblico “onore” di una famiglia era quella dei conti Florio. La famiglia Florio, proveniente (secondo la tradizione) dalla Dalmazia e trasferitasi a Udine nella seconda metà del XV secolo, conobbe una rapida ascesa sociale, il cui primo artefice fu probabilmente Giacomo, consultore in iure per la Serenissima nel primo Cinquecento. Nel 1518 la famiglia venne inserita nel “Libro d’oro” della nobiltà udinese e fu quindi tra quelle che costituirono il patriziato urbano, caratterizzato da un agio economico derivato, in quasi tutti i casi, da attività commerciali, che spesso progrediva verso l’esercizio di professioni giuridiche e di cariche pubbliche. Nel XVIII secolo le fortune dei Florio incrementarono fortemente. Grazie a Filippo, infatti, la famiglia ottenne la possibilità di aderire all’Ordine di Malta; inoltre i Florio inglobarono cospicui patrimoni nella loro eredità, che non si risparmiarono dall’ostentare attraverso la costruzione di palazzi e ville rustiche. Per volere del conte Sebastiano sorse la villa di Persereano, a presidio di estesi beni fondiari. Fu proprio il nuovo palazzo la prima sede della biblioteca tanto desiderata da due dei figli di Sebastiano, Daniele e Francesco, che le riservarono uno spazio d’onore in alcune stanze della villa, prima che venisse trasferita (tra il 1776 e il 1780) nella nuova sala, appositamente allestita.
Francesco aveva intrapreso una carriera ecclesiastica, e fu non solo un erudito cultore della storia locale, ma anche autore di numerose opere di tipo spirituale. Daniele, invece, alloggiando presso la corte di Vienna, coltivò la sua passione per la poesia celebrativa e si mantenne in corrispondenza con tutta l’intellettualità dell’epoca. Fu proprio grazie a quest’ultimo che vennero acquistati i primi libri (tra il 1766 e il 1767), aggiunti ai precedenti testi di tipo giuridico della biblioteca. I Florio comprarono sia libri di autori contemporanei che classici (relativamente facili da reperire all’epoca, grazie alla liquidazione delle biblioteche di molteplici conventi e monasteri), riguardanti il diritto, la storia locale, la geografia e le scienze in generale. Furono molti i volumi pregiati acquistati, più per ostentare l’elevata posizione sociale e il decoro della famiglia che per reali interessi di studio.
Gli acquisti aumentarono con il passare degli anni, tanto da causare alcune difficoltà economiche a Daniele, che venne, quindi, finanziariamente supportato dal fratello Francesco. La sua dedizione e cura per la biblioteca rimase, in ogni caso, sempre costante, ed egli riuscì a trasmettere la sua passione anche alle generazioni successive. Proprio per questo motivo, affiancato dal fatto che la biblioteca rappresentava chiaramente un pregio e in parte l’identità della famiglia Florio, essa non verrà mai divisa tra gli eredi, come invece successe a molte altre biblioteche friulane, ma è ancora oggi quasi intatta e soprattutto rimane un simbolo dello spirito enciclopedico settecentesco.
LA BIBLIOTECA NEL 1900
Il 2 Agosto 2013, il professor Attilio Maseri, dona all’Università degli studi di Udine la Biblioteca e l’Archivio della famiglia Florio; in precedenza la biblioteca era stata custodita nella villa della famiglia Florio a Persereano.
Nel 1940 la contessa Giuliana Canciani Florio si ritrova all’improvviso ereditiera della enorme ricchezza del marito, Cino Florio morto tragicamente nell’incidente aereo di Tobruch insieme ad altri personaggi di spicco come Italo Balbo e Nello Quilici, padre di Folco.
Orfana di padre e vedova a 28 anni, la contessa ha la responsabilità di crescere la giovane figlia Francesca, di soli 2 anni, di mantenere alto il nome e il prestigio della famiglia e di gestirne il patrimonio.
Giuliana però è una donna forte e, studiando da privatista, supera l’esame di maturità per poi trasferirsi a Bologna, dove studierà agraria e si laureerà nel 1945.
Nel 1980 la contessa mette in vendita la dimora cittadina dei Florio in Via Palladio, che necessitava di importanti lavori di restauro. La ricerca di un acquirente è lunga e, nonostante le molte offerte di privati, il palazzo viene infine ceduto, anche se a prezzo ridotto, all’Università di Udine in modo da preservare il suo forte valore culturale.
La contessa decide di conservare la Biblioteca, posta nell’ala destra del Palazzo, legata fin dall’inizio ad una precisa volontà di autocelebrazione dei Florio; iniziata nel XIIX sec. dal canonico Francesco Florio e dal fratello Daniele Florio, scrittore e poeta, e arricchita negli anni dai loro successori, fino a diventare una raccolta comprendente più di 12 000 volumi, alcuni dei quali di valore inestimabile.
A questo punto si poneva il problema del trasferimento della biblioteca comprendente oltre ai materiali cartacei anche le scansie e gli armadi. La prima idea fu quella di trasportarla nella villa familiare di Persereano, ma si capì subito che nel corpo centrale non avrebbe potuto essere collocata per problemi di dimensione e soprattutto per il peso. Un’accurata ricognizione dei luoghi, eseguita insieme all’architetto Maria Antonietta Cester Toso, consulente e amica, permise di individuare un locale adatto nel fabbricato posto a sinistra della villa, fino ad allora utilizzato come rimessa per le macchine agricole e deposito di concimi.
I LAVORI DI RESTAURO
I lavori di restauro e sistemazione della rimessa vennero affidati all’architetto Maria Antonietta Cester Toso.
Il fabbricato, l’antico foladôr, si componeva di una vasta sala a piano terra con pavimento in terra battuta, e di un altrettanto vasto ambiente al primo piano, utilizzato come granaio.
Un problema importante da affrontare subito era rappresentato dalla notevole altezza degli armadi lignei, ben superiore a quella della stanza. Si decise dunque di rimuovere il solaio intermedio e di dare forma ad un unico ambiente a doppia altezza.
I lavori di riqualificazione compresero la impermeabilizzazione del tetto e del pavimento, l’irrigidimento strutturale con la ricostruzione di un nuovo solaio poco sotto la copertura. Le finestre del piano superiore, di dimensione inferiore rispetto a quelle del piano inferiore, vennero riproporzionate, in modo da dare una particolare luminosità agli ambienti.
Si ottennero infine due stanze collegate da una porta: una più estesa per la biblioteca principale ed una più ridotta per l’archivio.
Al termine dei lavori furono trasferiti nella nuova biblioteca tutti gli armadi, le scansie, i tavoli. Ultimi a trovare degna collocazione, sempre provenienti dal palazzo udinese, furono i ritratti dei Florio che tanto avevano contribuito alla creazione e all’arricchimento della stessa.
IL RITORNO A PALAZZO FLORIO
Nel 2013 il professor Attilio Maseri, vedovo di Francesca Florio, figlia della contessa, e ultimo erede della fortuna Florio decide di donare la biblioteca all’Università di Udine a condizione che essa venga riposizionata nella sua sala originale. Oggi la biblioteca è di nuovo posizionata nei suoi antichi locali di palazzo Florio a Udine, come un tempo.
Al termine del 2016 verranno conclusi i lavori di catalogazione delle migliaia dei volumi presenti nella biblioteca eseguiti sotto la guida del professor Andrea Tilatti, docente dell’ateneo di Udine.
DANTE ALL’INTERNO DELLA BIBLIOTECA FLORIO
Come primo passo è necessario distinguere due discorsi, che però sono legati alla vita dei due fratelli Daniele e Francesco Florio. Da un lato bisogna analizzare l’interesse specifico dei due fratelli per l’opera di Dante; dall’altro, invece, va compiuta una riflessione su una sezione specifica della biblioteca che è caratterizzata dai libri antichi a stampa e dai codici manoscritti.
Per quanto riguarda il primo punto la nostra attenzione va incentrata interamente sul personaggio di Daniele Florio poeta e cultore di letteratura, del quale è difficile interpretare se riteneva Dante oscuro e barbaro, oppure se lo ammirava e apprezzava; la risposta richiederebbe uno studio approfondito delle epistole di Daniele che, in realtà, è già stato compiuto ma non in questa prospettiva. Siamo certi, invece, della sua passione verso Petrarca, del quale, aveva imparato a memoria tutto il “Canzoniere” da quanto detto dal fratello Francesco. Nonostante ciò non poteva essere ritenuto un petrarchista. Ritornando all’interesse del giovane Florio per Dante al momento possiamo solo fornire dei dati esteriori che vanno interpretati in uno sfondo di interessi molto più ampio. Per esempio leggendo gli appunti sui suoi libri acquistati si scopre che in quelli fatti tra il 1766-1767 in cima alla lista è presente il “Dante del Zatta”, inoltre nella sua libreria ci sono diverse edizioni settecentesche della “Divina Commedia” come la “Commedia di Dante” del 1739 organizzata in tre volumi.
Se ci concentriamo adesso sul secondo punto della nostra ricerca è inevitabile il forte desiderio di Daniele di possedere materiali antichi ed inusuali; nella biblioteca, infatti, sono presenti alcuni incunaboli e un piccolo spazio con diversi codici manoscritti di cui non ne conosciamo la provenienza anche se talvolta ne parla nei suoi appunti. Tra questi c’era sicuramente un’edizione a stampa della “Commedia” datata nel 1550, secondo un inventario del 1915, nella quale forse si riconosce l’edizione aldina del 1502; inoltre risulta tra i 36 libri acquistati nel 1772-1775 al numero 11 “Dante Commedia”. Tutto ciò conferma l’interessa di Daniele, nella sua caccia alle edizioni preziose e rare, sia per le opere di Dante come per quelle di Petrarca ed altri autori italiani, ma soprattutto per lo stampatore Aldo Manuzio (1449-1515). Oltre a tutte queste importanti edizioni occorre prestare grande attenzione verso il “Codice Florio”, un manoscritto ora al centro dell’interesse dei filologi danteschi per l’edizione della “Commedia”. La prima volta esso compare nell’inventario del 1893 del Mazzatinti al numero 11 tra i codici in possesso dei Florio e viene descritto come una raccolta di sedici unità manoscritte; successivamente viene citato nell’inventario del 1915 come contenitore di 72 libri tra manoscritti ed incunaboli del primo Cinquecento. Lo ebbe poi sotto gli occhi nel 1823 il letterato italiano, Quirico Viviani (1784-1835), mentre procedeva alla stesura della sua edizione udinese della “Divina Commedia”, egli esaltò il codice e il suo proprietario, infatti egli ammirava molto Daniele Florio tanto che gli scrisse un elogio nel 1809 e finì uno dei suoi poemi incompiuti dal titolo “Tito ossia Gerusalemme distrutta”. Daniele Filippo (1792-1875), nipote di Daniele, proibì poi a Viviani la consultazione del manoscritto appena si accorse che il letterato aveva iniziato a scriverci sopra liberamente i suoi appunti ritoccando anche alcune parti mediante l’uso della punteggiatura. Le notizie poi che legano Daniele all’acquisto del codice in Friuli, ovvero quelle dette da Viviani, sono attendibili ma resta il problema di sapere chi ne fosse il proprietario precedente. La descrizione di Viviani, inoltre, si può confrontare con l’ultima di Cesare Scalon pubblicata nel 2003 in un breve articolo intitolato “Su alcuni codici ritrovati della Biblioteca Florio”. Nel primo caso si trattava di annunciare una scoperta: quella dei codici friulani della Commedia nella speranza che essi fossero i più vicini alle prime edizioni poiché redatte nello stesso periodo coincidente con il soggiorno di Dante in Friuli, luogo dove sarebbe stato addirittura portato a termine il poema. Quirico, infatti, riteneva che i manoscritti friulani fossero più autorevoli in quanto redatti nei luoghi dove egli (Dante) ha composto le sue opere rispetto a quelli dove è stato cacciato. Nel secondo caso, invece, da tempo si era smentita l’ipotesi di una lunga permanenza di Dante in Friuli e si parlava di una riscoperta: quella dei ritrovati codici superstiti della biblioteca Florio. Fra questi due estremi però ci sono anche dei punti d’ incontro. Tra gli studiosi di Dante in Friuli il più attivo è stato sicuramente Antonio Fiammazzo (1851-1937) che nel 1887 pubblicò, a Cividale, un volume intitolato “I codici friulani della Divina Commedia” dove pose sotto analisi i cinque manoscritti allora noti nella regione: Codice Florio, Bartoliniano, Guarneriano, il Codice De Claricini e il Torriano. In uno dei suoi studi egli offre una descrizione dove esalta il Codice Florio, mentre rimprovera prima l’editore del Bartoliniano per aver “profanato” quest’opera e poi Viviani per averla “saccheggiata”. Fiammazzo, che si divideva tra filologia e politica, non smise mai di criticare Viviani infatti rispuntò l’occasione di farlo nel 1921 quando anche in Friuli si volle celebrare il centenario dantesco. Nel 1926, infine, dedicò un articolo “Intorno al codice dantesco udinese dei conti Florio” dove riprese le sue considerazioni sull’origine del codice nella Toscana del 300, e le avvalorò con i pareri di Enrico Rostagno (1860-1942) e Mario Casella (1886-1956) che esaminarono il manoscritto tramite riproduzioni fotografiche di esso. Casella, in particolare interpellato nel 1925, lo descrive come un codice piacevole, ma con all’interno del materiale inutile facilmente trascurabile.
Il codice passò poi sotto gli occhi di Giuseppe Porta al quale fu affidato dai curatori della mostra dantesca fiorentina del 1965. Egli non scoprì nessuna novità particolare, salvo riprendere la datazione del manoscritto al secolo XV, che sembra essere quella ad oggi più veritiera. Dopo Giuseppe il codice non venne più esaminato fino all’arrivo nel 2003 di Cesare Scalon, come già detto in precedenza. Adesso rimane da chiedersi quali siano -e se ce ne siano- di questioni aperte, per un manoscritto di cui sono note sia l’esistenza sia le sue caratteristiche, visto che viene spesso citato nei percorsi della ricerca e della filologia dantesca in edizioni anche celebri come quella di Giorgio Petrocchi, nel 1966-1967, che lo cita tra i testi utilizzati parzialmente. Nonostante ciò il codice fino ad ora è stato maneggiato da pochi ricercatori, gli altri lo hanno consultato mediante riproduzioni fotografiche non eccellenti. La datazione sembra ormai certa verso gli inizi del XV secolo, mentre rimangono ancora poco chiari il luogo dove fu redatto e l’epoca e la strada mediante la quale esso giunse in Friuli, prima ancora che nelle mani dei Florio; infatti non è possibile determinare se il manoscritto fosse già arrivato in Friuli nel Quattrocento e contribuisse alla conoscenza locale del poema.
BIBLIOGRAFIA
“Splendori di una dinastia, l’eredità europea dei Manin e dei Dolfin”, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia;
“L’imperatrice del mais”, Liliana Cargnelutti;
Con la gentile collaborazione del prof. Andrea Tilatti e di Maria Antonietta Cester Toso